Proprio qualche giorno fa dicevo su Instagram che quando non funziono, cammino. Cammino tanto, lo faccio per mettere in ordine i pensieri, oppure per allontanarli, riempiendomi le orecchie di musica o gli occhi di ciò che mi sta intorno.
Cammino per raggiungere luoghi, persone, vette, per sfogare la rabbia, scoprire posti nuovi, far andare le gambe, stare sola con me stessa, immergermi nel silenzio, mettermi alla prova, rallentare, scappare dalla quotidianità, dimenticarmi di tutto il resto. Quando cammino siamo soltanto io e i miei passi, il mio respiro, il battito del mio cuore. Non ho bisogno di altro.
Ma per chi, come me, lavora con le parole, camminare è anche il modo perfetto per trovare l’ispirazione e stimolare la creatività. Chissà, magari a te la lampadina si accende quando sei sotto la doccia, mentre mediti, ti alleni o lavori a maglia. Io per far fluire le idee che poi si trasformeranno in parole scritte ho bisogno di mettere in fila i passi, uno dietro l’altro.
Camminare per scrivere
Nel suo Manuale di scrittura creativa (che secondo me dovresti proprio leggere se hai bisogno di dare una scossa al tuo modo di vivere la scrittura), Simona Sciancalepore, che nella vita “progetta con le parole e le liste, allena all’immaginazione e alla creatività”, dice a ragione che la scrittura passa dal corpo. A me questo sembra un pensiero fantastico e illuminante al tempo stesso. Ma cosa significa? Lei lo spiega così:
La scrittura passa dal corpo: tira fuori le cose che hai nella pancia e quelle che stanno vicine al cuore e le mette su carta. Dal corpo passa l’esperienza che abbiamo di noi, degli altri e del mondo. [...] Il corpo ha una reazione per ogni pensiero che attraversa la nostra testa. Il corpo parla, ha un suo linguaggio, si sintonizza con le parole, lascia che tu lo traduca, che interpreti quello che gli passa dalla pelle.
Anche se forse non sempre ci riesco, perché è faticoso, richiede impegno sia fisico che mentale e a volte mi sfinisce, è proprio così che cerco di interpretare la scrittura, sia mentre lavoro che quando scrivo soltanto per me. Cerco di farla passare prima dalla pancia, la lascio serpeggiare, la faccio risalire fino alla testa e poi giù, scende di nuovo fino alla mano e si trasforma. Il gesto fisico della scrittura racchiude in sé un movimento che in realtà ha attraversato tutto il corpo. Sì, tutto, perché nel mio caso quel processo passa anche dai piedi che mentre camminano fanno sì che le idee si mettano in moto, si riscaldino, siano pronte per diventare altro.
Camminare serve a creare il silenzio necessario, a mettere distanza tra il mentale, vale a dire l’atto creativo, e l’atto fisico della scrittura. Ecco che la scrittura si trasforma in una sorta di “digestione”, di rielaborazione degli stimoli raccolti. Le fasi di questo processo però non sono distinte, isolate, ma tra di loro c’è una sorprendente continuità.
In Why Walking Helps Us Think, un illuminante articolo pubblicato su The New Yorker, Ferris Jabr sostiene che camminare e scrivere siano attività affini, tanto fisiche quanto mentali, che ci aiutano a organizzare sia il mondo che ci circonda che i nostri pensieri.
Perhaps the most profound relationship between walking, thinking, and writing reveals itself at the end of a stroll, back at the desk. There, it becomes apparent that writing and walking are extremely similar feats, equal parts physical and mental. When we choose a path through a city or forest, our brain must survey the surrounding environment, construct a mental map of the world, settle on a way forward, and translate that plan into a series of footsteps. Likewise, writing forces the brain to review its own landscape, plot a course through that mental terrain, and transcribe the resulting trail of thoughts by guiding the hands. Walking organizes the world around us; writing organizes our thoughts.
Se tutto va come dovrebbe, quando camminiamo mettiamo da parte gli stimoli legati alla produttività a ogni costo, e ci concediamo la possibilità di accogliere gli stimoli involontari: i sensi si amplificano, lo spirito di osservazione aumenta, tutto sembra connettersi, farsi più intenso, assumere un significato più profondo. Noi, l’ambiente che ci circonda, il modo in cui lo percepiamo, la nostra memoria. Non sempre quel significato ci è subito chiaro, perché il tempo delle idee e delle connessioni che le lega è lento, come una goccia che scava la roccia. Scrivere è costruire, e per costruire servono lentezza e precisione, un po’ come per arrivare in cima a una montagna servono impegno e determinazione.
È quando torniamo a sederci alla scrivania, con il nostro foglio bianco davanti, che tutto assume un senso. Proprio come quando camminiamo per ore e arriviamo alla fine del nostro sentiero, ci riempiamo gli occhi del panorama che abbiamo di fronte e capiamo il perché di tutta quella fatica.
Paul Auster, una delle mie “penne” preferite, lo dice meglio di chiunque altro in Diario d’inverno (tradotto da Massimo Bocchiola). Spero non me ne voglia, ma ho deciso di lasciarlo spiegare a lui.
Per fare quello che fai hai bisogno di camminare. È camminare che ti porta le parole, che ti permette di sentire il ritmo delle parole mentre le scrivi nella tua mente. Un piede avanti, poi l’altro piede, il doppio battito di tamburo del tuo cuore. Due occhi, due orecchie, due braccia, due gambe, due piedi. Questo, e poi quello. Quello, e poi questo. Scrivere incomincia nel corpo, è la musica del corpo, e anche se le parole hanno significato, possono a volte avere significato, è nella musica delle parole che i significati hanno inizio. Siedi alla tua scrivania per scrivere le parole, ma nella mente stai ancora camminando, sempre camminando, e quello che senti è il ritmo del tuo cuore, il battito del tuo cuore.
Ecco, se non l’hai ancora trovata, auguro anche a te di trovare il tuo “camminare”, quel momento soltanto tuo che ti porta le parole, e che anche se non te ne accorgi fa girare gli ingranaggi del corpo e della mente all’unisono.
📖 Cosa ho letto
Nelle ultime settimane ho letto parecchio, ma ho deciso di lasciare da parte tutto il resto per parlarti di Dall’orto al mondo, di Barbara Bernardini (nottetempo). Se dovessi descriverlo in poche parole, direi che si tratta di un diario che racconta il progetto di coltivazione di un orto, ma la verità è che questo manuale è molto di più. Di sicuro lo è stato per me.
Tra le sue righe si racchiude la volontà di prendersi cura di qualcosa per prendersi, in fondo, cura di se stessi. L’orto è un po’ una metafora del dedicarsi a un progetto, scegliere con cura cosa metterci dentro, imparare dagli altri, imparare dagli errori, praticare la costanza, metterci la dedizione.
Dall’orto al mondo ha risvegliato in me la memoria della terra, mi ha riportata alle radici che mi tengono ancora al passato. Sono stata una bambina che osservava i suoi nonni coltivare, far crescere, nutrire assecondando tempi lenti, attingendo alla memoria e alla saggezza delle generazioni passate.
Forse provare a prendersi cura di un rettangolino di terra è un modo per riallacciare un legame con questa parte di famiglia ormai sparita. Per rimettere in sesto le cose che a un certo punto abbiamo smesso di far funzionare, una forma diversa di riflusso nel privato: non più per non impegnarsi, ma per rimettere insieme i pezzi intanto su piccolissima scala, dove far filtrare solo le cose importanti e tenere fuori le altre, sottraendosi quanto possibile a un sistema che mostra tutte le sue storture, per ritrovare posto in un ciclo più giusto. Per rimediare all'accelerazione estrema verso qualcosa che all’inizio era benessere ma ora spinge verso un malessere inspiegabile.
Forse è l’illusione di salvarsi da questo malessere salvando con sé un pezzetto di terra. Resistere tornando a fare qualcosa che ha un significato circoscritto, inequivocabile, tondo, giusto, buono: se pianto un seme è per mangiare un pomodoro.
Quando sono cresciuta ho avuto voglia di ritrovare quel “buono”, di impegnarmi a mia volta, sentirmi parte di qualcosa di più grande. Allora ho dato vita al mio orto e come Barbara ho sperimentato, commesso errori, ho fatto domande, ho accumulato tentativi. Ho sfamato famiglie intere per settimane perché al momento della semina ho pensato che lasciar cadere nella buca qualche seme in più di certo non avrebbe fatto male a nessuno. Mi sono lasciata sopraffare dalle erbacce, dalle lumache, dalle cornacchie, dalla grandine, dal sole di agosto.
Ho avuto male alle ginocchia, alla schiena e alle braccia, ma in fondo, come mi ha ricordato questo libro, insieme al mio orto sono stata felice perché per qualche anno mi è tornato in mente come si fa a rallentare. Mi è tornata in mente la fatica buona, la gioia di essere una cosa sola con la terra.
[...] la fatica dell’orto non è stanchezza. O almeno, non è di quella stanchezza che ti sfianca e demoralizza: anche quando qualche essere misterioso mangia le tue verdure e tutta la fatica fatta per piantarle a terra si dissolve in beccate incontrollabili, non avverti quella stanchezza dell’inconcludenza. La stanchezza vera di colpisce quando hai l’impressione di fare cose senza senso alcuno, quando si perde il legame tra le azioni e la loro ricaduta nel reale, quando ciò che compi non ha valore in sé ma ha bisogno di una sua rappresentazione, di un suo racconto, per assumerne.
[...] e una lunga lista di momenti in cui vedevo gli altri vivere mentre io restavo bloccata, e ci ho messo così tanti anni prima di capire che non volevo più farla, quella fatica lì, insensata, inutile, che sembrava di transito verso qualcosa ma che non mi faceva muovere di un passo, che non produceva niente di concreto, niente che fosse utile per qualcuno, figuriamoci per me.
[Barbara non si prende cura soltanto del suo orto, ma anche di Braccia rubate, la sua newsletter che segue le fasi lunari. Se hai voglia di leggerla, puoi iscriverti qui.]
Anche per oggi è tutto, grazie per avermi letta fin qui. Se hai voglia di raccontarmi cosa ti aiuta a scrivere o semplicemente a mettere in moto le idee, darmi un consiglio o farmi una domanda, rispondi a questa e-mail o scrivimi: ciao@valentinamuccichini.it. Non vedo l’ora di leggerti! Marginalia tornerà a giugno.
A presto,
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